No, non è un film sul sistema che respinge il diverso e che muore per sua stessa mano.
Non è un film sulla prigionia della mente e sulla liberazione.
Non è un film sui bambini tristi o sugli adulti infelici, né un film sull’ipocrisia del benpensante e sul desiderio di riscatto di chi è più povero.
Secondo me è un film sulla follia.
Sulla follia e su come la follia possa sfiorare la ragione più di quanto ci piaccia pensare.
Arthur è matto, ma dice cose vere.
Arthur fa ciò che una persona normale farebbe, ma non fa, senza nemmeno immaginare di volerlo fare.
Quando lo picchiano, nei due pestaggi mai innocenti, ciascuno di noi vorrebbe difenderlo ferocemente e il fatto che ferocemente reagisca lui è un sollievo perché così, il matto è lui e non noi.
La folla può indossare maschere, lui è la maschera.
Il passaggio tra la depressione buona e la scelta di reagire da cattivo, però, è tecnicamente troppo veloce e la pistola data per imbroglio dal finto amico si salva solo se diventa il simbolo della realtà che può essere un giocattolo o un arnese di morte a seconda di come ce la si racconta.
A seconda se decidiamo che sia tragedia o che sia commedia, come dice lui.
Non mi convince attribuire a quest’opera significati sociologici o pedagogici, credo che questo film sia solo la descrizione della pazzia dal punto di vista del pazzo, ma, da sola, questa cosa vale l’Oscar.
Joaquin Phoenix è un attore che, come De Niro (o Nicholson) diventa ciò che interpreta e, in questo modo, porta la mente dello spettatore nel passaggio sotterraneo da realtà a finzione, che è la vera magia del cinema.
In questo senso sì che è un capolavoro.
Non mi convince il finale, non l’ho capito, ma se non mi oppongo e mi lascio trascinare, rinunciando a risolvere l’angoscia della visione, è un finale che mi trasporta, definitivamente, nella testa del matto.
E a quel punto comprenderne il significato non serve più.
E a quel punto è solo Joker.