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Senza bar

Di domenica, spesso, il mio bisogno è quello di uscire, ma non solo di casa, anche di città, come se il luogo in cui abito fosse un recinto con uno sportello da aprire per andarsene fuori. Non mi serve andare molto lontano, basta uscire dal recinto e incamminarsi verso spazi diversi. In cui non c’è il lavoro, in cui non ci sono orologi, né impegni. È il mio concetto di tempo libero.

Questa volta, siamo andati a Limonta, un piccolo paese sul lago di Como, che una volta aveva identità di Comune autonomo e ora è frazione di un paese che di reale ha solo il nome: Oliveto Lario. Oliveto Lario non esiste, esistono solo le sue tre frazioni: Vassena, Limonta e Onno, riunite, perché diventate troppo piccole, nel 1927. I loro 1242 abitanti appartengono a due diocesi diverse: quella di Milano (Onno e Limonta) e quella di Como (Vassena). Onno e Limonta hanno il Carnevale distinto da quello di Vassena, le prime due seguono il rito ambrosiano, la terza quello romano.

Un bel daffare, anche se, una volta raggiunte, tutto questo movimento non si percepisce per niente. Questi luoghi, che sembrano rimasti quelli di un tempo, ora sono vuoti e silenziosi. Botteghe, scuole e municipi hanno lasciato il posto a tante case, molte chiuse perché di villeggiatura, che guardano il lago godendosi il sole che, nel primo pomeriggio, poi, se ne va. A Vassena, Limonta e Onno sono rimaste otto chiese, due cappelle, una scuola dell’infanzia e una scuola primaria, ma di domenica è tutto chiuso.

A Limonta, una volta parcheggiata la macchina, abbiamo cercato un bar, che non c’era. Ci siamo seduti su di una panchina e abbiamo ascoltato i suoni intorno che sembravano pennellate su tela. Il cane. L’acqua. Il motore di un tagliaerba. Il canto degli uccelli. Che non ci fossero bar ce lo ha detto un signore che stava aggiustando il motore di un attrezzo agricolo dentro il giardinetto della sua abitazione. È rimasto male a doverci dire di no, tanto che ci ha invitati a bere un caffè a casa sua. Noi non abbiamo osato accettare, forse non era quello che cercavamo, ma quell’invito mi è rimasto in mente come un piccolo racconto breve. Se tutti i giorni vivi in rete, di questi momenti hai molto bisogno. Quando torni a casa, restano nella mente come se fossero presenti e tornano per ricordarti che quello che accade non è mai solo ciò che accade, è anche ciò che non è lì, ma esiste lo stesso, solo che non lo vedi.

A me, questo, a volte, serve a difendermi dal presente, quando è un cattivo presente. Io sono lì, ma, nello stesso momento, sono anche altrove. Fuori dal recinto. Non so come si chiama questa cosa, ma so che serve, soprattutto quando sembra che non ci siano speranze, né luoghi o momenti diversi da ciò che si vive. Invece, i luoghi diversi ci sono, così come c’è sempre la speranza di essere, noi, un luogo diverso, se il luogo che siamo non ci corrisponde più. E se non so più cosa voglio perché tutto si è riempito di ciò che non voglio più, allora, posso immaginare di svuotarmi e di essere qualcos’altro. Posso immaginare di essere un luogo senza parole, senza progetti, senza obiettivi, senza tempo.

Posso immaginare di essere un luogo senza nemmeno un bar.

 

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