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Foto di Betty Lazzarotto

Restiamo umani

I macro eventi esterni, specie se drammatici, condizionano molto ciò che siamo, internamente.
Le stragi, gli attentati, i grossi incidenti, i delitti, anche se non ci toccano direttamente, provocano scosse e sussulti dentro di noi più di quanto possiamo immaginare.
Ci coinvolgono, senza permetterci di metterci mano, senza darci la possibilità di fare qualcosa direttamente.
Per empatia, sentiamo ciò che può essere accaduto ad altri, lo immaginiamo, ne soffriamo, lo viviamo come possibile anche per noi e questi sentimenti ci modificano.
Modificano la nostra stabilità.
Si tenta, e molti ci riescono, di non venire coinvolti emotivamente, ma l’operazione del cinismo è altamente a rischio.
E’ debole, ci dà apparente forza, ma ci toglie la lucidità e la possibilità profonda di partecipare al mondo.
Allora, sentire, compatire, soffrire e struggerci a distanza ci è quasi inevitabile, nella maggior parte dei casi e questo, come già detto, ci cambia.
E se non c’è la possibilità di consolare, di trattare, di intervenire, ci cambia in peggio.
Ci toglie energie, ci destabilizza, ci dà insicurezza senza che ce ne possiamo realmente rendere conto.
La vita continua, ma più stanca, più incerta.

In ogni viva e vitale comunità, gli eventi negativi sono sempre stati affrontati, per poterli superare ricavandone capacità di crescita, in due modi.
Il primo è semplice: stando insieme.
Non ognuno per conto suo, nella sua casa, nella sua famiglia, in sé, ma insieme.
Insieme, un evento tragico è uno, divisi diventa cento, mille, un milione.
Il secondo modo è: manifestando ciò che si prova.
Tirando fuori lo sconcerto, comunicando la preoccupazione, scambiando parole di conforto, domandando, rispondendo, esprimendo.

In questi giorni, vedo che questo, timidamente, accade. Lo vedo in qualche piccolo segno collettivo, come nella contenuta manifestazione indetta dall’Amministrazione Comunale della mia città o nel minuto di silenzio durante il concerto di canti alpini ieri sera in piazza.
Come nelle dichiarazioni dei capi di stato o nelle immagini delle persone che portano fiori dove c’è stata morte.
Ma sento tutto questo estremamente povero e infinitamente insufficiente.
Quando avviene, non siamo tutti e non siamo insieme.
Quando avviene, la maggior parte di volte, non partecipiamo direttamente, ma assistiamo.
Quando avviene, non diciamo la nostra, ascoltiamo quella di qualcun altro, nemmeno troppo vicino a noi.
L’insistenza con la quale i mezzi di comunicazione ci danno i nomi e i volti e le storie di chi muore ingiustamente, innocente, per atto vile e incomprensibile, ci serve per pensare a ciascuno di loro, per onorare ciascuno di loro o risponde al bisogno di incollare al video e ai giornali chi questi prodotti deve comprare?
Possiamo, nella nostra semplice e definita mente, nel nostro limitato cuore, fare entrare tutte quelle persone, con tutte le loro storie, con tutte le loro infinite e indefinite per noi caratteristiche?
No, non possiamo.
E se lo facciamo, poco dopo dobbiamo togliercelo dalla testa perché impossibile da tenere.
Diventa una cosa che passa via, che scorre, che intercettiamo per un attimo per abbandonarla appena si può.
Allora, non so.
Non so cosa si può fare, non tanto per impedire gli eventi tragici e misteriosi di questa vicenda umana, non so cosa si può fare per affrontarli, nel migliore dei modi. Oggi.
Perché si cerchi un senso, un significato, perché ci si sostenga nella fiducia comunque nella vita, perché i più piccoli imparino a non avere paura. Oggi.
Non so.
Ritrovare riti comuni, cercare parole comprensibili e condivise, riscoprire gesti utili a superare, insieme, i colpi presi. Oggi.

Per restare umani, diceva Vittorio Arrigoni.
Ecco, vorrei capire cosa possiamo fare, per restare umani.

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