Le vacanze (scolastiche) infinite, al termine delle quali arrivava, finalmente, il settembre piovoso e fresco, non ci sono più.
Sparite, inghiottite dal Tempo della Vita che, quando passa, non sai mai quantificare per davvero, a dispetto della convenzionalità degli anni.
Ora, la mia pausa si chiama ferie e dura, spesso, anche una settimana soltanto.
Che non basta nemmeno a riposare, figuriamoci ad interrompere sul serio il lavoro.
È una specie di scherzo che ti sei fatto da solo e, alla fine dei sette giorni, ti ricordi che sono proprio pochi e giuri che “la prossima volta non lo farai più”.
Ma tant’è.
Non essere nemmeno andata via, poi, procura quella strana sensazione che hai quando sogni, ti svegli e non capisci quale delle due dimensioni è quella vera.
La vacanza è finita o sta per incominciare?
Il tempo è così, incerto e mobile, contrariamente alla fissità dei calendari che appendiamo ai muri.
Un periodo spiacevole può durare in eterno nonostante si compia in pochi giorni e qualcosa che ci piace molto sembra volare in pochi minuti anche se l’orologio fa parecchi giri.
Ieri può sembrare un anno fa e domani parere lontano come fosse passato un secolo.
L’impressione è qualcosa che si nutre di sentimenti (come la paura o la nostalgia) e di sensazioni (come la fame o il sonno) e ci coinvolge più di qualsiasi ragionamento.
Ma una certa oggettività esiste e, oggi pomeriggio, che questa pausa sia stata troppo breve è una certezza matematica.
Non ho ancora voglia di fare la cartella, né di comprare l’astuccio nuovo.
L’idea di rivedere i compagni che ho lasciato mi stressa l’anima e il giro per i negozi a cercare il grembiule mi deprime e basta.
Ridatemi l’infanzia a giugno, vi prego.
Giuro che faccio la brava e il primo di ottobre ritorno come nuova.