Ovvio, ovvio che non esiste sparare ad un’altra persona, magari alle spalle, nemmeno se sei arrabbiato o spaventato perché qualcuno è entrato in casa tua per rubare.
Ovvio.
Ovvio che non esiste dire che non dispiace la morte di un uomo e che chi ha ucciso ha fatto bene.
Ovvio.
Ovvio che non ci si difende da sé come accadeva mille e più anni fa.
Ovvio.
Tutti lo sanno, anche chi si ostina a dichiarare il contrario.
E tutti sanno che chi si fa fotografare accanto al signor Mario per fare campagna politica è una persona furba.
Ma io non riesco ad accettare la diatriba che si innesta questa vicenda.
Non riesco ad accettare che la questione diventi chi ha maggior torto, quando, di fronte ad una morte, non ci sono graduatorie che tengano.
Una morte è una morte, un furto un furto.
Ma perché, perché ci scateniamo gli uni contro gli altri e non ammettiamo, invece, che siamo tutti coinvolti in questa scena in cui non ci sono vincitori, ma soltanto perdenti, poveracci e perdenti?
Dovremmo tacere, e pregare, per chi non c’è più e per chi ha perso l’anima.
Dovremmo stare zitti e vergognarci di quanto è successo e di quanto sta succedendo, nei fatti e nelle parole.
Dovremmo mortificarci, non discutere.
Abbracciarci, non litigare.
Dovremmo confessare di avere oltrepassato i limiti, chiedere perdono a noi stessi, prima ancora che agli altri.
Quale è la via per ritornare in sé?
Per ritrovare le ragioni e la dignità?
Parlare? Parlarsi?
Certamente fermarsi. A riflettere, per cercare di capire cosa sta accadendo.
Non è in gioco il concetto di giustizia, ma, più profondamente, la questione della vita e della morte.
Ed è su questi temi che occorre discutere confrontarsi, non sulla legittima difesa.
Riprendere il filo, ritrovare il bandolo.
Altrimenti, dopo avere eliminato il ladro e condannato l’assassino, non ci resterà altro che piangere.
