La cattiva scuola

Com’è una scuola che nei primi giorni dell’anno, quando i bambini e i ragazzi sono emozionati, ma anche spaventati, non predispone la presenza di tutti gli insegnanti che servono e che li possano accogliere?

Cattiva.

Com’è una scuola che, pur sapendo, ogni anno, che l’anno dopo si ricomincia non organizza il quadro dei suoi dipendenti e, così, ogni volta, ogni volta, non è pronta?

Cattiva.

Com’è una scuola che nomina i dirigenti solo pochi giorni prima dell’inizio così che nessuno è preparato e, spesso, non conosce nemmeno dove è finito?

Cattiva.

Com’è una scuola che lascia soli alunni in condizione di grave disabilità perché non è riuscita a nominare gli insegnanti di sostegno?

Cattiva.

Com’è una scuola che obbliga insegnanti di sessant’anni a sedersi per terra con i bambini della prima infanzia, lasciando a casa giovani persone che non vedono l’ora di lavorare con loro?

Cattiva.

Com’è una scuola che mette in organico docenti senza esperienza o con poche ore di tirocinio alle spalle?

Cattiva.

Com’è una scuola che non ha soldi per il materiale, per gli strumenti e per la formazione?

Cattiva.

E, infine, com’è una scuola che pensa ancora che il suo orario finisca con il suono della campanella e non ingaggia gli insegnanti nella vita sociale ed educativa delle comunità, facendo riferimento solo alla buona volontà di qualcuno?

Cattiva.

Noi ci arrangiamo, ma almeno non chiamatela buona, perché ci fate proprio, ma proprio arrabbiare.

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Studenti

Sarà che è lunedì anche per me e non ho fatto tre mesi di vacanza, ma, stamattina, l’onda d’urto degli studenti che marciavano come bufali verso la scuola mi ha dato molto fastidio.
E diciamolo.
Le facce dei pochi adulti che boccheggiavano cercando di farsi largo tra la fiumana incolta erano sofferenti e scocciate.
I giovani spingono, urtano, travolgono, calpestano e, non da ultimo, sbadigliano a bocca spalancata come se non ci fosse un domani.
Probabilmente, presi uno a uno potrebbero riacquistare sembianze umane, ma così, tutti insieme, creano un’entità a parte da studiare antropologicamente.
Lo so, lo so, questo sentimento è una delle prove definitive che sono diventata grande, per usare un eufemismo.
Ma sono certa, non li sopporta nessuno.
La mente cerca di andare all’indietro per recuperare memoria del mio passato: eravamo così anche noi?
No, mi dico, no, dai, no.
Mi appiglio a cambiamenti sociologici e pedagogici che vengono citati per descrivere la maleducazione delle nuove generazioni native digitali e passo in rassegna i numerosi dati che dicono di quanto poco siamo capaci di fare rispettare le regole.
Penso a noi adulti privi di autorevolezza e di rigore e alle scuole in mano alle bande dei bulli, rifletto su come non responsabilizziamo i nostri figli e su quanto sia difficile competere con la tecnologia, della quale loro sono ostaggi.
Poi, mi arrendo e ammetto che, forse, è sempre stato così.
O, perlomeno, da quando, cinquant’anni fa, è finita l’epoca della coercizione, delle punizioni, dell’ordine costituito e dell’autorità paterna, con la quale non si dialogava nemmeno.
Anche perché c’era poco da dire.
Allora, forse, ciò che mi devo chiedere non è come mai facciamo così tanta fatica a convivere, piccoli grandi insieme, o come mai vige il caos o perché la comunità adulta educante ha perso il controllo e litiga sulla pelle dei pochi figli rimasti.
Mi devo chiedere, invece, come si può fare per essere liberi davvero.
Quali nuove regole, quali nuove convenzioni ci possono permettere di riscrivere una trama di rispetto orizzontale (tra tante culture messe insieme) e verticale (tra le diverse, e molte, età contemporanee).
Chi dice cosa, chi ascolta chi, quali sono le cose irrinunciabili e quali quelle che possiamo mettere in discussione.
Il codice è saltato, tanto tempo fa, e non si può fare altro che tentare di costruirne un altro.
Con qualche riferimento: il piano geografico non può più essere solo locale, il piano sociale non può più essere solo specifico, quello psicologico non può più prescindere dalla tecnologia e quello etico/morale dall’insieme di mille popoli.
L’impresa sembra impossibile, a meno che non ci si appelli a ciò che, nei secoli, ha continuato a resistere, anche ai nostri attacchi, e che ci fa, oggi, come sempre, paradossalmente più paura.

A mezzogiorno, quando l’esercito dei futuri adulti è finalmente tornato a casa per pranzo, il sole alto che scalda le case si staglia fermo e sicuro sopra le nostre teste a dire che è soprattutto per NATURA che noi viviamo e che da questa si deve ripartire.

È a lei che dobbiamo domandare il permesso, lasciandole il passo, chiedendo per favore, senza spingere più.

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Non so

La morte di un giovane non è una morte, sono tante morti.
Muore lui, muore la sua gioventù, muoiono i desideri e i sogni che chi lo amava aveva per lui e muore, per un po’, il senso generale della vita.
È una morte che appare disumana, pur inserita nel nostro universo terreno.
Non la immagini, non la capisci, non la vuoi, non la accetti, non la ragioni.
La morte suicida di un giovane è tutto questo all’ennesima potenza, non è solo tragica, è surreale.
Qualsiasi riflessione è vana, lui non c’è più e non si riuscirà in nessun modo a parlargli ancora.
I pensieri cercano di sistemare i pezzi del significato-di-tutto andati in frantumi, ma il cuore si strappa, perduto.
Il dolore è infinito, proprio nel vero senso del termine, si spande per tutto il mondo.
Non c’è un verso per il quale prendere la vicenda, è solo immensamente assurda.
La tua vita, dopo, non è più la stessa vita.
Ciò che è accaduto cammina con te ovunque vai, per sempre.
La tua vita ospiterà per sempre la sua, ferma nel momento in cui ti è stata data la notizia.
La tua continua, ed è l’unica certezza, il resto oscilla, incespica, appare solo misterioso e strano.
Non so cosa si può fare, dire, cercare, non lo so.
So che l’unico momento in cui ci si consola è quando si prova pena.
È quando si viene invasi dalla tenerezza.
In quei momenti, si soffre, ma sembra di riacquistare calore, sembra che le cose ritornino vive.
Forse occorre continuare a parlare a quella persona, continuare a discorrere con lei.
Forse bisogna lasciarla andare e cercare solo di rimanere.
Non lo so.

La morte suicida di un giovane è di sicuro, per chi resta, una prova di vita e questo solo so, ora.

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Viva la scuola

Le vacanze (scolastiche) infinite, al termine delle quali arrivava, finalmente, il settembre piovoso e fresco, non ci sono più.
Sparite, inghiottite dal Tempo della Vita che, quando passa, non sai mai quantificare per davvero, a dispetto della convenzionalità degli anni.
Ora, la mia pausa si chiama ferie e dura, spesso, anche una settimana soltanto.
Che non basta nemmeno a riposare, figuriamoci ad interrompere sul serio il lavoro.
È una specie di scherzo che ti sei fatto da solo e, alla fine dei sette giorni, ti ricordi che sono proprio pochi e giuri che “la prossima volta non lo farai più”.
Ma tant’è.
Non essere nemmeno andata via, poi, procura quella strana sensazione che hai quando sogni, ti svegli e non capisci quale delle due dimensioni è quella vera.
La vacanza è finita o sta per incominciare?

Il tempo è così, incerto e mobile, contrariamente alla fissità dei calendari che appendiamo ai muri.
Un periodo spiacevole può durare in eterno nonostante si compia in pochi giorni e qualcosa che ci piace molto sembra volare in pochi minuti anche se l’orologio fa parecchi giri.
Ieri può sembrare un anno fa e domani parere lontano come fosse passato un secolo.
L’impressione è qualcosa che si nutre di sentimenti (come la paura o la nostalgia) e di sensazioni (come la fame o il sonno) e ci coinvolge più di qualsiasi ragionamento.
Ma una certa oggettività esiste e, oggi pomeriggio, che questa pausa sia stata troppo breve è una certezza matematica.
Non ho ancora voglia di fare la cartella, né di comprare l’astuccio nuovo.
L’idea di rivedere i compagni che ho lasciato mi stressa l’anima e il giro per i negozi a cercare il grembiule mi deprime e basta.

Ridatemi l’infanzia a giugno, vi prego.
Giuro che faccio la brava e il primo di ottobre ritorno come nuova.

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Al bar

Faccio colazione la mattina di Ferragosto e mi ritrovo a fianco di due bacchettoni di tarda età.
Non riesco mai ad esimermi dall’ascoltare i discorsi degli altri.
Mi piace troppo, è come leggere un libro o vedere un film.
Oggi, il dialogo a fianco verte sulla storia di una conoscente trentenne milanese che, in vacanza alle Mauritius, ha incontrato e impalmato un indigeno di diciotto anni.
Ma come si fa, come è possibile, come si può innamorarsi a diecimila chilometri di distanza, uno così giovane, l’ha fatto solo per una questione fisica, cosa c’entra con Milano, ma dai.
E che palle.
Perché dobbiamo accanirci così contro le scelte personali, legittime e private degli altri?
Che cosa ci hanno fatto di male?
Tanta rabbia si spiega solo se è avvenuto qualcosa che non si scontra solo con la Morale o con l’Etica Universale, ma anche con qualcosa che ha a che fare con te, direttamente con te.
Apparentemente tu non c’entri, non ti tocca quel fatto e, invece, passi un quarto d’ora delle tue vacanze a sparare a zero indignato contro un altro.
Un’ipotesi ce l’ho, anche se potrei essere, a mia volta, coinvolta nei fatti.
Credo si tratti di fastidio per la Felicità Altrui, così racchiusa, spesso, nei Gesti Strani, ma coraggiosi che, a volte, gli Esseri Umani compiono.
Penso si tratti di una nascosta invidia per ciò che non riesce proprio ad accaderci, ma lo vediamo avvenire al di fuori di noi.
E non è fidanzarsi con un surfista di colore in riva ad uno dei mari più belli della terra e nemmeno regalarsi un amore sotto le stelle dei Tropici.

Probabilmente, è prendersi la libertà di vivere davvero, anziché guardare il mondo dal tavolino di un bar.

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Proposta di matrimonio

La proposta di matrimonio a bordo vasca di Rio 2016 è un evento sorpresa non solo per la promessa sposa.
Tutti abbiamo sussultato perché, a dire la verità, non ce lo aspettavamo né in quel momento lì, né da quelle persone lì.
È talmente lontana da noi la Cina che ti pare un po’ che chi ci abita non possa proprio fare tutto tutto quello che facciamo noi.
Oddio, mangiare, bere, dormire eccetera sì, ma emozionarsi, sognare, fare dichiarazioni d’amore boh, chi lo sa.
E, invece, improvvisamente, fuori l’anello!
Da una parte, che meraviglia.
Un gesto d’amore pubblico è  qualcosa che ogni donna sogna, penso ad insaputa dei partner, vista la scarsità numerica del fatto suddetto.
Ma, proprio così pubblico non so.
E che spazio si ha, eventualmente, per dire di no?
Ti immagini?
Una cosa così personale passerebbe alla Storia asfaltando i sentimenti più intimi e scaraventandoti nell’Universo degli eventi.
Ma, la cosa che mi colpisce di più è la concomitanza con la medaglia olimpica.
Medaglia tutta sua, di questa piccola He Zi, fino a poco prima protagonista, ammesso che i successi individuali in Cina siano propri, di sé medesimi.
Arriva seconda, esulta, ma immediatamente il sentimento viene spostato con un’onda d’urto verso tutt’altra cosa.
Pum! E non sono più sul podio, ma sull’altare.
Pam! Quello che ho fatto dopo anni di sacrificio (credo letterale) passa in terzo piano.
I secondi di suspense prima della risposta affermativa un brivido ce l’hanno dato.
Ecco, diciamo che invece che soave, l’atmosfera aveva un sapore surreale.

Povera He Zi, un po’ di pena a me l’ha fatta, ma potrei non essere attendibile.

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Buone vacanze

Uno dei momenti più belli della vita sono le prime ore di vacanza dopo avere terminato il lavoro.
Quando non è ancora sera, quando non è ancora il giorno dopo, quando non è ancora il primo giorno di ferie, a partire dal quale, più o meno, incominci a contare quanti ne mancano.
È quell’intercapedine di tempo che intercorre tra il termine del lavoro e l’inizio ufficiale del riposo.

Bellissimo.

Esci, l’aria ti sembra diversa da quella che c’era quando sei entrata, se c’è il sole splende un casino, se piove, non piove così tanto.
Cammini e assapori la libertà, bene da considerare inequivocabilmente il più prezioso al mondo dopo la salute.
Pensi: è finita, stop, basta.
Pensi ancora: magari non torno, rimango nullafacente, trovo il modo per non lavorare più.
Giri, hai ancora addosso l’energia dell’occupazione quindi fai, fai, metti a posto, programmi, progetti, enumeri propositi, un po’ come il primo dell’anno.
Ecco, il primo momento di vacanza è un primo dell’anno.
Senti che, da quel momento lì, potrai raggiungere i risultati che ti prefiggi da anni.
Dimagrire, diminuire l’uso della tecnologia, cucinare consultando le ricette che hai messo via da secoli nei ritagli di giornale (lo sai che c’è Internet, ma la collezione cartacea l’hai iniziata molto tempo prima e sei in debito), uscire con gli amici con cui rimandi sempre, scrivere un libro, pulire tutta la casa da cima a fondo, smettere di fumare se fumi, ricominciare a fare sport se non lo fai più, eccetera, eccetera, eccetera.
L’adrenalina da linea di partenza ti tiene attiva sul tempo libero come se fosse l’ordine urgente di un cliente che non puoi perdere, come se fosse la consegna prioritaria utile ad un avanzamento di carriera.

Il tutto dura più o meno un’ora e mezza.

Poi, poi, ti agguanta il sonno.
La stanchezza.
La fatica.
Il torpore.
Forse, anche un po’ di depressione.

Dopo, esce tutto lo sfinimento che hai accumulato giorno dopo giorno e vuoi solo dormire.
Dopo, vuoi solo non fare più niente, assolutamente più niente.

E, a quel punto, finalmente, sei in vacanza davvero.

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Rio 2016

Ci sono eventi che scatenano, negli individui di genere maschile, fenomeni di dipendenza, catalessi ed ipnosi appena prendono vita.
Sono gli eventi sportivi.
Lo sport trasforma un uomo parlante e in movimento in un arredo muto e immobile nello spazio di un secondo.
Le Olimpiadi, in questo caso, hanno paralizzato alla sedia mio marito senza più possibilità di averlo ancora con me.
Io penso: va beh, non è calcio, non è basket, ma mi dimentico, mi dimentico che è sport e, in quanto tale, possiede quel potere.
Il resto del mondo si ferma, figuriamoci gli esseri femminili che, casualmente, vagano loro intorno.
Stop, non ci siamo più.
Allora?
Approfittiamone per immergerci anche noi in passioni e passatempi, no?
Pur forzandomi, però, non riesco proprio a dedicarmi a qualsiasi altra cosa con la stessa intensità e dedizione.
Forse, perché ho bisogno di più cose insieme e se mi soffermo per troppo tempo su di una sento il resto dell’Universo che mi chiama.
Forse, perché qualsiasi attività alla quale mi dedico si ferma se qualcuno mi cerca.
Forse, perché non riesco a restare inchiodata davanti ad uno schermo se non per un film, ma dura due ore e poi mi sveglio dall’incantesimo.
Per mio marito, il bacio del Principe o della Principessa non sarebbero sufficienti, non se ne accorgerebbe.
L’attrazione per le competizioni sportive, per gli uomini, supera di gran lunga quella per l’altro sesso.
Durante la pubblicità si rifocilla velocemente, senza parlare.
Tra una gara e l’altra va in bagno oppure guarda nel vuoto.
Rimane, per me, un fenomeno incomprensibile che appartiene alla categoria dei misteri.
 
Non mi resta che accettarlo, mentre lo osservo e scrivo.
Ecco, riusciamo ad interessarci a loro anche quando non c’è nessuna speranza che si ricordino della nostra esistenza.
 
E se il mistero, a questo punto, fossimo noi?

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La coscienza ha un peso.
Chi ce l’ha, di solito costruita un po’ per educazione, un po’ per natura e un po’ per caso come tutte le cose, la sente, eccome.
Avere coscienza significa sentire il retro delle cose, comprendere cosa c’è dietro e, soprattutto, cosa c’entri tu, cosa puoi fare, cosa hai fatto, in che cosa, invece, ti sei tirato indietro.
Una cosa succede e tu, se hai coscienza, ne vedi le ragioni e, soprattutto, le conseguenze.
Ci ragioni, ti interroghi, ci pensi.

Ad avere coscienza impari da piccolo, ma anche da grande.
Da piccolo, soprattutto per imitazione. Se sei circondato da persone che hanno coscienza, impari.
Anche da grande puoi imparare, soprattutto se accetti un aiuto.
Un aiuto a sciogliere lo strato che, sulla coscienza, hai costruito via via con gli anni, soffocandola e seppellendola sotto montagne di azioni automatiche e di pensieri fissi che diventano prigioni.
Azioni che ci difendono dalle cose che ci capitano, dispositivi che ci impediscono di soccombere, ma che ci rendono ciechi e sordi.
Non vediamo più cosa ci succede davvero e non sentiamo più quello che abbiamo dentro.
La coscienza, appunto.
Allora, programmiamo delle strategie con le quali proteggiamo, o così ci sembra, ciò che siamo e ciò che abbiamo.
Appena veniamo messi in discussione, tac, sfoderiamo il meccanismo.
Incolpiamo, aggrediamo, evitiamo, ci chiudiamo, alziamo la voce, mettiamo a tacere e così via.
Poi, ci sembra di stare meglio, ma la fiammella, che arde in tutti, ci manda segnali di disagio, che possiamo ascoltare o no.
Invertire la rotta, rompere il meccanismo è difficilissimo. Ascoltare quei segnali è difficilissimo.
E’ difficilissimo perché corrisponde innanzitutto a perdere l’equilibrio.
Significa barcollare, disorientarsi.
Significa stare male.
Ma è proprio in quel momento lì che la coscienza parla.
Quando non capisci più niente, cosa fare, cosa essere, cosa dire, è quello il segnale del fatto che sei nella coscienza e non più nell’incoscienza.
Dovremmo spiegarlo ai bambini.
Attento: quando ti sentirai confuso, sarai pronto per cercare la strada.
Quando ti sembrerà di avere fallito, avrai la possibilità di riprovarci.
Quando crederai di non essere nessuno, incomincerai ad esprimere chi sei.
Le donne hanno coscienza più degli uomini.
E’ un bagaglio che ereditiamo dalle nostre antenate prima ancora di venire al mondo.
E crescere con l’attribuzione della responsabilità delle cose insegna a sentire responsabilità.
E’ un peso che sappiamo portare, di cui ci carichiamo a prescindere.
Allora, non possiamo essere proprio noi a insegnarla questa benedetta coscienza?
E ad insegnarla anche ai maschi?
Proteggendo fino ad un certo punto i nostri figli (non fino ai venticinque anni per intenderci), ma, poi, mettendo di fronte alle cose.
Essere presenti, rispondere in prima persona, assumersi gli oneri.

Tutto sommato, alla fine, dovremmo riabilitare il senso di colpa.
L’abbiamo ingiustamente condannato, ma ora che se ne sono perse le tracce, decisamente ci manca.

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Per un pugno di dollari

Non per dollari.
Solo per un pugno.
La notizia del picchiatore seriale che a Milano ha menato selvaggiamente dieci persone dopo avere loro chiesto un’informazione mi ha lasciato scioccata.
Ieri l’hanno preso, dopo la decima aggressione.
Così, senza batter ciglio, l’ha fatto e poi rifatto e poi rifatto ancora.
Chissà pensando a cosa, nel frattempo.
Me lo immagino che premedita, che programma, ma me lo immagino matto, ovviamente.
E , invece, probabilmente non lo è.
O, comunque, non lo è per una sindrome solo individuale, lo è almeno come lo sono le decine di persone che, in America, hanno giocato a quello che viene chiamato knockout game, “il folle gioco di chi si diverte a stendere i passanti a pugni”.
Cosa?
Sì, il folle gioco di chi si diverte a stendere i passanti a pugni.
La polizia dice che “non è un caso chiuso” e che “stanno cercando di capire cosa possa esserci dietro”.
Sempre che dietro ci sia qualcosa, anche se è quello che speriamo perché vorrebbe dire che c’è un
senso.
Ma, forse, un senso non ce l’ha.
Viene facile l’associazione ai video giochi, ovvero a quell’attività di gioco in cui ciò che fai si avvicina molto alla realtà, ma rimane nel contesto del virtuale e quindi, apparentemente, non ha conseguenze.
Quell’attività di gioco in cui ammazzare, ferire, accoltellare, sparare, sgozzare, menare risulta ugualmente impegnativo, ma non necessita di responsabilità, nonostante ti faccia sentire soddisfatto come se lo avessi fatto per davvero.
Il problema, di “quell’attività di gioco”, è che, come per molte altre attività piacevoli, se la eserciti  per tante, tante, tante ore, specie nell’età che dovrebbe essere evolutiva, ti procura ciò che, tecnicamente, si chiama dipendenza.
E, si sa, la dipendenza, portando assuefazione, chiede, a poco a poco, di aumentare le dosi della sostanza.
I video giochi hanno un limite, come tutto ciò che è prodotto dall’uomo e, dopo averlo raggiunto, ipotizzo io, solo ipotizzo, certo, occorre ritornare alla realtà.
Alla realtà che è certamente molto, molto più divertente e ricca e viva di un giochino a video.
Beh, quella realtà è la realtà in cui si è calato Nicolas Orlano Lecumberri.
Gli altri non sono, a quel punto, esseri umani nei quali ti identifichi attraverso l’empatia (ah, questa sconosciuta), ma immagini da colpire.

Immagini come quelle dei Pokemon che, e questo è l’ormai indubbio segnale che sono vecchia, vedo mischiarsi a quelle degli umani come se appartenessero allo stesso mondo e mi fa impressione.

Mia nipote (che di anni ne ha diciotto) mi ha detto sorridendo che un po’ le fa paura questa cosa dei Pokemon e io credo che una certa inquietudine sia proprio naturale.

Ma, soprattutto, e se io, su Pikachu mi ci sedessi sopra senza saperlo?
Cosa potrebbe succedermi?

 

 

 

 

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