Proposta di matrimonio

La proposta di matrimonio a bordo vasca di Rio 2016 è un evento sorpresa non solo per la promessa sposa.
Tutti abbiamo sussultato perché, a dire la verità, non ce lo aspettavamo né in quel momento lì, né da quelle persone lì.
È talmente lontana da noi la Cina che ti pare un po’ che chi ci abita non possa proprio fare tutto tutto quello che facciamo noi.
Oddio, mangiare, bere, dormire eccetera sì, ma emozionarsi, sognare, fare dichiarazioni d’amore boh, chi lo sa.
E, invece, improvvisamente, fuori l’anello!
Da una parte, che meraviglia.
Un gesto d’amore pubblico è  qualcosa che ogni donna sogna, penso ad insaputa dei partner, vista la scarsità numerica del fatto suddetto.
Ma, proprio così pubblico non so.
E che spazio si ha, eventualmente, per dire di no?
Ti immagini?
Una cosa così personale passerebbe alla Storia asfaltando i sentimenti più intimi e scaraventandoti nell’Universo degli eventi.
Ma, la cosa che mi colpisce di più è la concomitanza con la medaglia olimpica.
Medaglia tutta sua, di questa piccola He Zi, fino a poco prima protagonista, ammesso che i successi individuali in Cina siano propri, di sé medesimi.
Arriva seconda, esulta, ma immediatamente il sentimento viene spostato con un’onda d’urto verso tutt’altra cosa.
Pum! E non sono più sul podio, ma sull’altare.
Pam! Quello che ho fatto dopo anni di sacrificio (credo letterale) passa in terzo piano.
I secondi di suspense prima della risposta affermativa un brivido ce l’hanno dato.
Ecco, diciamo che invece che soave, l’atmosfera aveva un sapore surreale.

Povera He Zi, un po’ di pena a me l’ha fatta, ma potrei non essere attendibile.

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Buone vacanze

Uno dei momenti più belli della vita sono le prime ore di vacanza dopo avere terminato il lavoro.
Quando non è ancora sera, quando non è ancora il giorno dopo, quando non è ancora il primo giorno di ferie, a partire dal quale, più o meno, incominci a contare quanti ne mancano.
È quell’intercapedine di tempo che intercorre tra il termine del lavoro e l’inizio ufficiale del riposo.

Bellissimo.

Esci, l’aria ti sembra diversa da quella che c’era quando sei entrata, se c’è il sole splende un casino, se piove, non piove così tanto.
Cammini e assapori la libertà, bene da considerare inequivocabilmente il più prezioso al mondo dopo la salute.
Pensi: è finita, stop, basta.
Pensi ancora: magari non torno, rimango nullafacente, trovo il modo per non lavorare più.
Giri, hai ancora addosso l’energia dell’occupazione quindi fai, fai, metti a posto, programmi, progetti, enumeri propositi, un po’ come il primo dell’anno.
Ecco, il primo momento di vacanza è un primo dell’anno.
Senti che, da quel momento lì, potrai raggiungere i risultati che ti prefiggi da anni.
Dimagrire, diminuire l’uso della tecnologia, cucinare consultando le ricette che hai messo via da secoli nei ritagli di giornale (lo sai che c’è Internet, ma la collezione cartacea l’hai iniziata molto tempo prima e sei in debito), uscire con gli amici con cui rimandi sempre, scrivere un libro, pulire tutta la casa da cima a fondo, smettere di fumare se fumi, ricominciare a fare sport se non lo fai più, eccetera, eccetera, eccetera.
L’adrenalina da linea di partenza ti tiene attiva sul tempo libero come se fosse l’ordine urgente di un cliente che non puoi perdere, come se fosse la consegna prioritaria utile ad un avanzamento di carriera.

Il tutto dura più o meno un’ora e mezza.

Poi, poi, ti agguanta il sonno.
La stanchezza.
La fatica.
Il torpore.
Forse, anche un po’ di depressione.

Dopo, esce tutto lo sfinimento che hai accumulato giorno dopo giorno e vuoi solo dormire.
Dopo, vuoi solo non fare più niente, assolutamente più niente.

E, a quel punto, finalmente, sei in vacanza davvero.

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Rio 2016

Ci sono eventi che scatenano, negli individui di genere maschile, fenomeni di dipendenza, catalessi ed ipnosi appena prendono vita.
Sono gli eventi sportivi.
Lo sport trasforma un uomo parlante e in movimento in un arredo muto e immobile nello spazio di un secondo.
Le Olimpiadi, in questo caso, hanno paralizzato alla sedia mio marito senza più possibilità di averlo ancora con me.
Io penso: va beh, non è calcio, non è basket, ma mi dimentico, mi dimentico che è sport e, in quanto tale, possiede quel potere.
Il resto del mondo si ferma, figuriamoci gli esseri femminili che, casualmente, vagano loro intorno.
Stop, non ci siamo più.
Allora?
Approfittiamone per immergerci anche noi in passioni e passatempi, no?
Pur forzandomi, però, non riesco proprio a dedicarmi a qualsiasi altra cosa con la stessa intensità e dedizione.
Forse, perché ho bisogno di più cose insieme e se mi soffermo per troppo tempo su di una sento il resto dell’Universo che mi chiama.
Forse, perché qualsiasi attività alla quale mi dedico si ferma se qualcuno mi cerca.
Forse, perché non riesco a restare inchiodata davanti ad uno schermo se non per un film, ma dura due ore e poi mi sveglio dall’incantesimo.
Per mio marito, il bacio del Principe o della Principessa non sarebbero sufficienti, non se ne accorgerebbe.
L’attrazione per le competizioni sportive, per gli uomini, supera di gran lunga quella per l’altro sesso.
Durante la pubblicità si rifocilla velocemente, senza parlare.
Tra una gara e l’altra va in bagno oppure guarda nel vuoto.
Rimane, per me, un fenomeno incomprensibile che appartiene alla categoria dei misteri.
 
Non mi resta che accettarlo, mentre lo osservo e scrivo.
Ecco, riusciamo ad interessarci a loro anche quando non c’è nessuna speranza che si ricordino della nostra esistenza.
 
E se il mistero, a questo punto, fossimo noi?

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Per un pugno di dollari

Non per dollari.
Solo per un pugno.
La notizia del picchiatore seriale che a Milano ha menato selvaggiamente dieci persone dopo avere loro chiesto un’informazione mi ha lasciato scioccata.
Ieri l’hanno preso, dopo la decima aggressione.
Così, senza batter ciglio, l’ha fatto e poi rifatto e poi rifatto ancora.
Chissà pensando a cosa, nel frattempo.
Me lo immagino che premedita, che programma, ma me lo immagino matto, ovviamente.
E , invece, probabilmente non lo è.
O, comunque, non lo è per una sindrome solo individuale, lo è almeno come lo sono le decine di persone che, in America, hanno giocato a quello che viene chiamato knockout game, “il folle gioco di chi si diverte a stendere i passanti a pugni”.
Cosa?
Sì, il folle gioco di chi si diverte a stendere i passanti a pugni.
La polizia dice che “non è un caso chiuso” e che “stanno cercando di capire cosa possa esserci dietro”.
Sempre che dietro ci sia qualcosa, anche se è quello che speriamo perché vorrebbe dire che c’è un
senso.
Ma, forse, un senso non ce l’ha.
Viene facile l’associazione ai video giochi, ovvero a quell’attività di gioco in cui ciò che fai si avvicina molto alla realtà, ma rimane nel contesto del virtuale e quindi, apparentemente, non ha conseguenze.
Quell’attività di gioco in cui ammazzare, ferire, accoltellare, sparare, sgozzare, menare risulta ugualmente impegnativo, ma non necessita di responsabilità, nonostante ti faccia sentire soddisfatto come se lo avessi fatto per davvero.
Il problema, di “quell’attività di gioco”, è che, come per molte altre attività piacevoli, se la eserciti  per tante, tante, tante ore, specie nell’età che dovrebbe essere evolutiva, ti procura ciò che, tecnicamente, si chiama dipendenza.
E, si sa, la dipendenza, portando assuefazione, chiede, a poco a poco, di aumentare le dosi della sostanza.
I video giochi hanno un limite, come tutto ciò che è prodotto dall’uomo e, dopo averlo raggiunto, ipotizzo io, solo ipotizzo, certo, occorre ritornare alla realtà.
Alla realtà che è certamente molto, molto più divertente e ricca e viva di un giochino a video.
Beh, quella realtà è la realtà in cui si è calato Nicolas Orlano Lecumberri.
Gli altri non sono, a quel punto, esseri umani nei quali ti identifichi attraverso l’empatia (ah, questa sconosciuta), ma immagini da colpire.

Immagini come quelle dei Pokemon che, e questo è l’ormai indubbio segnale che sono vecchia, vedo mischiarsi a quelle degli umani come se appartenessero allo stesso mondo e mi fa impressione.

Mia nipote (che di anni ne ha diciotto) mi ha detto sorridendo che un po’ le fa paura questa cosa dei Pokemon e io credo che una certa inquietudine sia proprio naturale.

Ma, soprattutto, e se io, su Pikachu mi ci sedessi sopra senza saperlo?
Cosa potrebbe succedermi?

 

 

 

 

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Letizia Leviti

Ciao Letizia.
Non ti ho conosciuto, non ricordo il tuo volto, che appare nelle immagini dei servizi di Sky, non avevo mai sentito parlare di te.
Ieri sera, però, ho sentito parlare te.
Con voce debole e malata, hai lasciato un messaggio ai tuoi colleghi, e a tutti noi, che ho trovato sul sito di Repubblica.
Eri una inviata di guerra, il tuo bellissimo volto spicca sugli sfondi drammatici del mondo.
Si dice che eri brava e gentile e sensibile nel dare le notizie e nel messaggio audio che ho ascoltato, sei stata brava e gentile e sensibile anche nel dare la notizia della tua imminente morte, per malattia.
Il tuo è un messaggio di cui fare tesoro, perché non capita tutti i giorni che chi sta per lasciarci riesca ad avere il coraggio, la lucidità e la vitalità di parlare così.
Con così appassionato interesse per chi resta.
Con così infinito amore per chi resta.

Grazie Letizia Leviti, quarantacinque anni, ormai non più sulla Terra, quindi eterna.

http://video.repubblica.it/cronaca/e-morta-letizia-leviti-giornalista-di-sky-tg24-il-suo-ultimo-saluto-alla-redazione/247336/247450

 

 

 

 

 

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Restiamo umani

I macro eventi esterni, specie se drammatici, condizionano molto ciò che siamo, internamente.
Le stragi, gli attentati, i grossi incidenti, i delitti, anche se non ci toccano direttamente, provocano scosse e sussulti dentro di noi più di quanto possiamo immaginare.
Ci coinvolgono, senza permetterci di metterci mano, senza darci la possibilità di fare qualcosa direttamente.
Per empatia, sentiamo ciò che può essere accaduto ad altri, lo immaginiamo, ne soffriamo, lo viviamo come possibile anche per noi e questi sentimenti ci modificano.
Modificano la nostra stabilità.
Si tenta, e molti ci riescono, di non venire coinvolti emotivamente, ma l’operazione del cinismo è altamente a rischio.
E’ debole, ci dà apparente forza, ma ci toglie la lucidità e la possibilità profonda di partecipare al mondo.
Allora, sentire, compatire, soffrire e struggerci a distanza ci è quasi inevitabile, nella maggior parte dei casi e questo, come già detto, ci cambia.
E se non c’è la possibilità di consolare, di trattare, di intervenire, ci cambia in peggio.
Ci toglie energie, ci destabilizza, ci dà insicurezza senza che ce ne possiamo realmente rendere conto.
La vita continua, ma più stanca, più incerta.

In ogni viva e vitale comunità, gli eventi negativi sono sempre stati affrontati, per poterli superare ricavandone capacità di crescita, in due modi.
Il primo è semplice: stando insieme.
Non ognuno per conto suo, nella sua casa, nella sua famiglia, in sé, ma insieme.
Insieme, un evento tragico è uno, divisi diventa cento, mille, un milione.
Il secondo modo è: manifestando ciò che si prova.
Tirando fuori lo sconcerto, comunicando la preoccupazione, scambiando parole di conforto, domandando, rispondendo, esprimendo.

In questi giorni, vedo che questo, timidamente, accade. Lo vedo in qualche piccolo segno collettivo, come nella contenuta manifestazione indetta dall’Amministrazione Comunale della mia città o nel minuto di silenzio durante il concerto di canti alpini ieri sera in piazza.
Come nelle dichiarazioni dei capi di stato o nelle immagini delle persone che portano fiori dove c’è stata morte.
Ma sento tutto questo estremamente povero e infinitamente insufficiente.
Quando avviene, non siamo tutti e non siamo insieme.
Quando avviene, la maggior parte di volte, non partecipiamo direttamente, ma assistiamo.
Quando avviene, non diciamo la nostra, ascoltiamo quella di qualcun altro, nemmeno troppo vicino a noi.
L’insistenza con la quale i mezzi di comunicazione ci danno i nomi e i volti e le storie di chi muore ingiustamente, innocente, per atto vile e incomprensibile, ci serve per pensare a ciascuno di loro, per onorare ciascuno di loro o risponde al bisogno di incollare al video e ai giornali chi questi prodotti deve comprare?
Possiamo, nella nostra semplice e definita mente, nel nostro limitato cuore, fare entrare tutte quelle persone, con tutte le loro storie, con tutte le loro infinite e indefinite per noi caratteristiche?
No, non possiamo.
E se lo facciamo, poco dopo dobbiamo togliercelo dalla testa perché impossibile da tenere.
Diventa una cosa che passa via, che scorre, che intercettiamo per un attimo per abbandonarla appena si può.
Allora, non so.
Non so cosa si può fare, non tanto per impedire gli eventi tragici e misteriosi di questa vicenda umana, non so cosa si può fare per affrontarli, nel migliore dei modi. Oggi.
Perché si cerchi un senso, un significato, perché ci si sostenga nella fiducia comunque nella vita, perché i più piccoli imparino a non avere paura. Oggi.
Non so.
Ritrovare riti comuni, cercare parole comprensibili e condivise, riscoprire gesti utili a superare, insieme, i colpi presi. Oggi.

Per restare umani, diceva Vittorio Arrigoni.
Ecco, vorrei capire cosa possiamo fare, per restare umani.

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Cinquanta sfumature

Compiere cinquant’anni può rivelarsi drammatico o stimolante.
Nel mio piccolo panorama di conoscenze personali stravince la prima delle due sorti.
Io appartengo alla categoria degli entusiasti, ma ho la vaga sensazione che, in uno dei prossimi compleanni, toccherà anche a me deprimermi.
Questo per dire che il vero problema non è compierli. Non è varcare la soglia, superare il confine.
La difficoltà reale è tutto ciò che arriva DOPO i cinquanta.
La mia adrenalina si è esaurita in un tempo abbastanza breve, crollando insieme al resto degli ormoni.
Qualsiasi cosa io faccia, sono accompagnata da una serie infinita di disturbi, presenti e ben descritti in migliaia di blog femminili, ma per me originalissimi.
Ho, in ordine, infiammato tutti i tendini disponibili dopo avere passato l’inverno al corso di danze popolari finalizzato a tenerli in forma e, su ordine dell’ortopedico, sto camminando in scarpe con tacchi dalle quali cado distorcendomi le caviglie.
Accendo l’aria condizionata per il troppo caldo, per poi coprirmi per i brividi che sento.
Il mio cuore parte, senza avvisarmi, in concerti di extrasistole che fanno da sottofondo a tutto quello che faccio durante le mie giornate.
Piango, mi scoraggio, sono felice e soddisfatta in archi di tempo che non superano i dieci minuti e in cicli continui puntuali come orologi.
Ho fame, ma anche nausea e, contemporaneamente, lo giuro, sonno e insonnia.
Ho stretto solidarietà con tutti gli adolescenti del mondo e mi piacerebbe istituire gemellaggi per perorare la loro causa e diffondere nel mondo la cultura del perdono causa tempesta ormonale.
Bisognerebbe potere non andare a scuola e godere del congedo lavorativo.
Noi e loro dovremmo potere dedicarci solo alle nostre piccole e intense rivoluzioni endocrinologiche.
Tutto quello che facciamo di male e di sbagliato dovrebbe essere perdonato, a prescindere.
Dovrebbero essere istituiti premi, licenze e medaglie al valore.
Forse anche lauree e cittadinanze onorarie.
Ciò che ci capita non lo può capire nessuno, nemmeno noi stessi quando sarà passato.
Allora, l’unica possibilità di salvezza è quella che il mondo ci creda, andando sulla fiducia.
Che il mondo ci coccoli e ci consoli.

Invece, diventiamo odiosi e basta.
Senza appelli.
Non degni di minima comprensione, solo brutti e cattivi.

Peccato, perché se ci guardo dal di fuori, provo solo simpatia e tenerezza.
O no?

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Grazie a te

Con due giorni di ritardo commemoro anch’io la partenza per altri luoghi di Bud Spencer.
I fatti di Istanbul hanno spento l’eco che aveva lasciato in me la notizia della sua morte, ma oggi lo voglio ricordare.
“Era il mio idolo” mi ha scritto in un sms mio fratello, “combatteva la prepotenza degli uomini” ha aggiunto.
Tenerezza.
Per lui e per mio fratello.
Tenerezza per un sentimento che si era acceso in molti bambini degli anni Sessanta.
Un uomo forte e buono, come vorremmo fossero tutti, tutti gli adulti che ci proteggono e ci guidano quando siamo piccoli.
Ma non un buono così, buono e basta.
Era un buono con intenzione. Un buono che agisce, che non si tira indietro davanti alle ingiustizie, che non ha paura, un buono che colpisce, in tutti i sensi.
Ecco, Bud Spencer rappresentava la possibilità che qualcuno potesse fermare chi, come ha detto mio fratello, era prepotente e violento.
Come tanti ci è capitato di incontrare, anche da bambini.
Qualcuno che risarcisse le mortificazioni che ognuno vive, mille volte, senza, poi, purtroppo o per fortuna, ricordarsele più.
Qualcuno che mettesse in ordine le cose, come vorremmo che fossero.
Senza troppe parole e talmente diretto da far finire tutto in una risata.
Bud Spencer era Bud Spencer anche nei film, era lui il personaggio.
Così credibile da farlo ricordare non come un attore, ma come qualcuno che, veramente, combatteva per difendere i deboli.
Come un eroe.
Pare che le sue ultime parole siano state “Grazie a tutti”.
Sì, direi proprio un eroe.

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La ciambella blu

Cinque bambini corrono verso il mare.
Sono zingari.
Il più grande avrà nove, dieci anni, poi, a seguire, gli altri quattro, fino al più piccolo che, nudo, cerca di stare al passo.
Si divertono, sono un gruppo.
Nella pineta dietro di noi, il pick up e l’ammasso di roba per vivere, con il papà sdraiato e la mamma accanto che chiacchiera con lui.
Il penultimo ha indosso un costume rotto, tenuto insieme da un nodo.
Si buttano nell’acqua, i più grandi, gli altri a poco a poco, rabbrividendo e trattenendo il fiato tanto da fare uscire le ossa dal magro costato.
Sulla spiaggia, lentamente, avanza una comitiva di tedeschi, cinque o sei adulti, e due bambine.
Le bambine, bionde, fanno rotolare una ciambella blu, enorme, che corre spinta dal vento.
Il salvagente sfugge alle due e rotola, rotola, prima timidamente, poi sempre più veloce, fino all’acqua.
Lì, si sdraia, soddisfatto e, a poco a poco, si allontana.
I tedeschi corrono, una di loro si spoglia, neanche troppo velocemente, e si butta in acqua.
La lentezza dell’operazione, in rapporto alla velocità del vento che soffia la ciambella al largo, è evidente.
Quando la donna lascia la riva, la ciambella è un puntino blu tra i flutti.
I cinque zingari, che hanno seguito tutta l’operazione urlando e sbracciandosi, si rassegnano delusi, mentre il resto del gruppo non si muove.
Le due bambine sono mute e condividono lo sconforto con i nomadi coetanei.
Ma, quando sembra che la scena sia conclusa, dal largo arriva un gommone a motore, lanciato, che raggiunge la riva.
Sul gommone, un bel giovane con barba e occhiali a specchio e vicino a lui la ciambella.
Cavolo, l’ha recuperata.
I tedeschi guardano senza parlare, ma, soprattutto, senza ringraziare e, dopo qualche attimo di spaesamento, il giovane getta il salvagente a riva, si gira e se ne va.
Così fanno i tedeschi, e si capisce che ordinano alle bambine di fare altrettanto.
Forse, le stanno punendo, forse la ciambella ha finito di essere loro quando i cinque bambini scuri hanno incominciato a farle festa.
La prendono, si occupano di lei, cercano di consegnarla alla grande famiglia bionda, ma si accorgono che a loro non interessa più perché, senza rispondere, si allontanano.
Evviva, è tutta loro.
Diventa un gran giocare e se la godono fino a quando non si buca e, come pelle morta, rimane tra le cassette e le coperte del loro accampamento.
Che storia, la ciambella, stamattina era quieta, addormentata all’emporio e guarda dov’è finita.
Ma, soprattutto, chi l’avrebbe detto.
Il destino, a volte, è dato dal vento, a volte lo decide l’uomo.
Ma sempre, sempre, scorre veloce e tutto continua a cambiare.
C’era una volta una ciambella blu che si svegliò tutta sgonfia e sola in mezzo ad una pineta dopo un violento temporale che aveva fatto scappare tutti al riparo.
E un bimbo la raccolse per poterla aggiustare.

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L’amore ai tempi dei voucher

Stamattina ho passeggiato facendo il mio solito slalom, divertita, curiosa e attenta, tra i diversi personaggi che popolano il centro della mia città la domenica mattina quando c’è bel tempo.
Mamme vestite da festa con bambini in tinta, fidanzati che fanno la seconda colazione insieme, signore in libera uscita, coppie anziane innamorate un giorno su sette.
Tutti felici.
Chi esce la domenica mattina quando c’è il sole e passeggia per la città è felice, altrimenti non sarebbe lì.
Tra le chiacchiere che ascoltavo, una mi ha divertito molto.
Una ragazza dice ad un ragazzo, mentre camminano veloci distinguendosi un po’ dagli altri: “Nooo, mica è un contratto che si rinnova… quello è un voucher e (lì sono morta dal ridere) i voucher sono bastardissimi!”.
I voucher bastardissimi è troppo simpatico.
Allora, andiamo per ordine: il contratto a tempo indeterminato non veniva nemmeno nominato.
Al suo posto, sul podio, c’era il “contratto che viene rinnovato” (ovviamente a tempo determinato) e, in alternativa malefica, il VOUCHER.
Il bastardissimo voucher.
La ragazza ha, poi, aggiunto: “Quello, giorno dopo giorno, non sai se arriva!”.
Ecco, a parte la simpatia, questo è il vissuto di cui dovremmo accorgerci, noi adulti, che hanno i giovani del lavoro.
Il posto fisso è un fossile, reperto archeologico di cui la maggior parte dei ragazzi ignora l’esistenza, anche letteraria.
Il contratto a tempo determinato, che si può o no rinnovare, la norma.
Il livello di precarietà che viene sentito e che mette agitazione, è quello giornaliero, non più mensile, o annuale.
Sotto quel livello, rimane solo l’attesa del proprio destino ora dopo ora, alla “Miglio verde” per intenderci.
Che ripercussioni può avere sulle nostre anime, questo pensiero relativo al lavoro?
Nei nativi digitali, che potremmo definire anche nativi precari, cosa comporterà questo rapporto temporale sugli altri ambiti della vita?
L’amore dura ancora per sempre, almeno nei pensieri e nelle fantasie dei giovani o è, al massimo, a tempo determinato?
L’amicizia appare ancora a prova di vita o dipende dalla carica del cellulare?
Dopo la scuola, c’è il futuro o la continuazione della vita che, giorno dopo giorno, i genitori pagano?
Io sarò vecchia quando queste persone saranno gli adulti che, secondo la tradizione, dovrebbero sostenere i figli e i genitori anziani.
Ma anche questo è un pensiero antico.
Forse la nostra aspettativa di vita passerà dagli attuali ottantuno/ottantaquattro anni alla mattina del giorno dopo, forse saremo in centinaia a contenderci i pochi uomini e le poche donne rimasti in forza.
Forse, la tecnologia ci avrà regalato modalità di autonomia oggi ancora sconosciute.
Forse, sopravvivranno i ricchi, forse chi saprà costruire buone relazioni.
Di sicuro, io sarò lì ancora ad ascoltare ancora questa straordinaria specie umana, che nel corso dei secoli è riuscita, sempre, contrariamente ad ogni previsione, a stupire qualsiasi aspettativa, nel bene e nel male.
E’ il fattore sorpresa che potremmo rivalutare: al tempo del posto fisso, gli amori sembravano eterni e invece erano solo da tenere nel segreto della propria casa.
Oggi, ai tempi dei voucher, possiamo sperare che l’amore lo si possa inventare ogni giorno e che, ogni giorno, senza dare niente per scontato, ce lo si debba guadagnare.
Bastardo sì, ma molto, molto responsabilizzante.

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